30 Ottobre 2025

Raro, pregiato, versatile: Il Tartufo di Molière

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[rating=4] Il Tartufo di Molière, commedia in cinque atti, venne censurato all’epoca della sua apparizione, 1664. Oggi, nel 2015, possiamo ammirarlo in tutto il suo splendore nella versione integrale, che fa tappa anche al Teatro Metastasio di Prato.

La regia di Marco Sciaccaluga crea un imponente e metaforico carrozzone carnevalesco, da cui i personaggi salgono e scendono ininterrottamente, e dove si consumano i drammi e le piccole gioie di una famiglia sull’orlo di una crisi di nervi. L’incipit di quest’adattamento, targato Stabile di Genova, è impressionante, grazie a una trovata semplice e geniale che immerge nella dimensione macabra, barocca, iper-ironica del racconto. Congelati in pose mostruose, gli attori siedono a una lunga tavola intenti a consumare uno statico banchetto, mentre lampi violenti illuminano i volti, simili a statue di una cattedrale gotica. Se un’opera, si direbbe, si vende alle prime scene, questa si vende benissimo da subito. Quando le luci tornano alla normalità gli attori si rianimano e cominciano a conversare, ridere, mangiare di gusto, mentre il problema focale si delinea da subito: quel Tartufo è un poco di buono. Ognuno vuole dire la sua su questo personaggio che da un pò di tempo è entrato nelle grazie del padrone di casa, Orgon (il superlativo Eros Pagni), uomo devoto e pio, imbambolato dalle finte dimostrazioni di fede e d’affetto del mascalzone Tartufo (un abile Tullio Solenghi). Gli schieramenti sono così fatti, da un lato la moglie di Orgon, il figlio, il cognato, la figlia, la dama di compagnia detestano Tartufo l’opportunista, il viscido, il falso amico; dall’altro Orgon e la madre (l’eccezionale Massimo Cagnina) sono gli unici a credere alla santità di quel brav’uomo, tanto da nominarlo erede.

Il Tartufo di Moliere

La trama si sussegue lineare, senza curve. Orgon stenta a credere alle ingiurie della famiglia contro il suo beniamino, e mira a darlo in sposa alla tenera figlia Mariane (la brava Elisabetta Mazzullo), già innamorata di un altro gentiluomo. Ma la sua dama di compagnia, la scaltra Dorine (una scoppiettante Barbara Moselli), corre ai ripari ed escogita insieme a Elmire, moglie di Orgon, un piano per incastrare Tartufo e smascherarlo per quello che è, un lussurioso libertino travestito da patetico devoto. Orgon assiste al tentativo di Tartufo di sedurre Elmire, che lo provoca per l’occasione, e si rende conto dell’inganno morale in cui è caduto. Scoperto il giochino, Tartufo, ormai erede sulla carta, minaccia lo sfratto e si erge in tutta la malignità fino a quel momento repressa. Ma il lieto fine è inevitabile.

Il fascino di questo spettacolo è ornamentale e sostanziale: esso parte dalla scenografia mastodontica, passa per le rime in versi (nella versione italiana di Valerio Magrelli) e finisce sul volto di Eros Pagni, maschera tragica e impassibile che esprime l’inesprimibile. I personaggi di Molière sono dinamici e schietti ma non misteriosi, a eccezione di Tartufo, dalla psicologia tridimensionale, contorta, nascosta. Orgon, che ispira comprensione e rabbia per la sua cieca, stupida ammirazione del pacchiano, della moneta fuori corso, si riscatta strada facendo e suscita, infine, pietà. Se lo spettatore è spinto a condannare Tartufo, incarnazione del marcio spirituale senza epoca, allo stesso tempo è esaltato dalla sua ambiguità esilarante, ben resa da Tullio Solenghi. Molière è quindi vivo più che mai grazie a una regia attenta, fine, intelligente, che distribuisce magnificamente i tempi comici, e lascia trasudare la cattiveria, il cosmico nulla del male, l’infinetisima parte di bene che ogni tanto sboccia come un fiore fuori stagione.

Eros Pagni catalizza l’attenzione in scena; con il suo volto antico e moderno, il cerone, gli occhi marcati di nero, la sua figura sbrilluccica come la cascata di lustrini che invade il palco nel finale.

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